Alla scoperta della collezione egizia
nel Museo Archeologico di Napoli
La collezione egizia del Museo
Archeologico di Napoli è la seconda più importante d'Italia, dopo
quella del Museo Egizio di Torino.
Raccoglie 2500 oggetti databili
tra l'inizio dell'epoca dinastica e la fine dell'epoca bizantina
(3000 a.C. - 640 d.C.), pervenuti tra il 1803 e il 1917, attraverso
l'acquisizione di collezioni private quali la collezione Borgia, la
collezione Zoëga, la
collezione Drosso-Picchianti e le collezioni Hogg e Schnars.
Di queste collezioni fanno parte alcuni
pezzi originali dell'epoca dell'antico Egitto, e altri pezzi
egittizzanti, i cosiddetti “falsi sette-ottocenteschi”, prodotti
sia a scopo didascalico, che a scopo puramente speculativo.
Il progetto per la formazione di una
sezione di antichità egiziane nel Real Museo Borbonico giunge a
compimento solo nel 1821, ma possiamo collocarne le premesse alla
fine del decennio francese, quando nel 1814 Gioacchino Murat avvia
l'acquisto della celebre collezione Borgia.
Se visiterete la collezione egizia nel
Museo Archeologico di Napoli, per raggiungere il piano seminterrato,
dovrete percorrere una buona parte della collezione Farnese,
ereditata da Carlo di Borbone in quanto figlio di Elisabetta Farnese.
Fu poi l'erede di Carlo, e cioè Ferdinando di Borbone, a riunire i
pezzi della collezione Farnese e i reperti degli scavi di Pompei,
Ercolano, Stabia ed Oplonti all'interno del Museo Archeologico.
Prima delle scale che portano alla
collezione, troverete dei calchi in gesso di alcune stele egizie.
Scendendo poi le scale, la prima statua
ad accogliervi sarà il:
Naoforo farnese, forse la
prima testimonianza della civiltà egiziana antica entrata a far
parte delle collezioni del Museo di Napoli, presso il quale la sua
presenza è documentata già dal 1803. Non appartiene alle
collezioni private, ma alla collezione Farnese.
Il naoforo è la statua di un
personaggio inginocchiato con le braccia protese in avanti a
sorreggere un tabernacolo (dal greco naos, lo stesso che nei
templi greci custodiva la statua della divinità). All'interno del
naos troviamo Osiride, la divinità egizia dell'oltretomba.
Il naoforo farnese risale all'epoca
tarda, alla XXVI dinastia (664 – 525 a. C.). Il personaggio
ritratto è un porta-sigilli, il suo nome è quasi impronunciabile:
Uahibramerineit, figlio di Taqerenet. Questi dettagli sono
incisi sul lato posteriore della statua, in due colonne verticali sul
pilastro dorsale. Uahibramerineit indossa un corto gonnellino
plissettato e porta un'ampia parrucca “a borsa”, e un pendente
che raffigura Bat, forma arcaica della Dea-vacca Hathor, simbolo di
fertilità.
Insieme al naoforo, nell'ingresso,
troviamo pannelli esplicativi della collezione egizia, teche con
oggetti egittizzanti, quindi risalenti al XVII e al XIX secolo, e
tre calchi delle divinità Iside, Osiride e Hathor.
Tra gli oggetti raccolti all'interno
della teca è interessante il calamaio a forma di babbuino,
iconografia, che spesso, in alternativa all'ibis, veniva utilizzata
per il dio Thot, inventore della scrittura.
Seguono cinque sale, nelle quali sono
disposti i pezzi originali della collezione.
Nella sala XIX sono esposte, in ordine
cronologico, quasi tutte le statue della collezione egizia del MANN –
appartenenti per lo più alla Collezione Borgia – che raffigurano
faraoni, funzionari civili e militari, scribi e sacerdoti. Le statue
per gli egizi non “rappresentavano” la persona, ma “erano” la
persona stessa. Venivano, difatti, animate tramite il rituale
dell'apertura della bocca, ed erano considerate intermediari tra il
mondo dei vivi e quello dei morti, tra gli uomini e gli dei. Le
statue erano in pietra, metallo, legno, avorio e calcare arenaria,
erano frontali e poco espressive. Dall'abbigliamento e dai dettagli
possiamo riconoscere il loro status sociale; per lo più, le statue
venivano realizzate per chi apparteneva a un ceto sociale alto. In
particolare, i faraoni venivano rappresentati spesso sotto forma di
sfingi, e cioè con il volto di un uomo, e il corpo di un leone
(oppure in forma criocefala, cioè con la testa di ariete,
specialmente nel Nuovo Regno), spesso poste su slitte. Di sfingi al
MANN ne abbiamo quattro, ma solo una è quasi completa. Porta un
nemes, cioè una parrucca, in questo caso con un motivo a
fasce. Spesso sulle statue dei regnanti si trova anche l'ureo,
sulla fronte, e cioè il cobra, simbolo della potenza faraonica, e la
corona, che poteva essere rossa, e cioè del basso Egitto, a nord,
oppure bianca, e cioè dell'alto Egitto, a sud, o ancora la doppia
corona, se il faraone aveva regnato dopo l'unificazione dell'Egitto
(2850 circa). Per quanto riguarda gli scribi, invece, generalmente
venivano raffigurati con le gambe incrociate e il papiro in mano.
Abbiamo ancora, in questa sezione, alcuni esemplari di statue cubo,
come quella di Hori, sacerdote, di epoca tarda. La statua cubo appare
nel Medio Regno (2055-1650 a.C.) e continua ad essere prodotta anche
oltre la fine dell'epoca faraonica. Rappresenta un personaggio seduto
a terra (o su un cuscino) con le gambe riportate al petto e le
braccia incrociate sulle ginocchia, le cui fattezze sono avvolte in
un mantello, dal quale fuoriescono solo le mani e la testa, talvolta
i piedi. Troviamo poi, in questa sala, le già menzionate
statue-naoforo, che appaiono durante il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.).
Le statue vengono mostrate all'interno
della collezione egizia attraverso le varie epoche, partendo
dall'Antico Regno (2686 – 2613 a.C.), attraversando il Medio Regno,
per poi arrivare al Nuovo Regno, al III periodo intermedio (1069-665
a.C.) e all'Epoca Tarda (664-332 a.C.), nonché all'epoca post-
faraonica, della quale abbiamo una testa di Alessandro Magno e una
statuina di regina tolemaica, raffigurata in veste della dea Iside.
All'interno della collezione egizia abbiamo anche la statua più
antica del Museo Archeologico di Napoli - quella di un funzionario -
chiamata “Dama di Napoli” perché considerata per lungo tempo
raffigurazione di una donna, a causa della lunga gonna e della
parrucca. Questa statua risale all'inizio dell'Antico Regno, durante
la III dinastia ed è, in realtà, una figura maschile.
Per la maggior parte della storia
egiziana una minoranza di Egizi godettero del privilegio di essere
sepolti in tombe monumentali. Nella loro forma più tipica queste
comprendevano una cappella costruita fuori terra o scavata nella
roccia, dove i vivi recavano offerte al defunto, e una parte
sotterranea sigillata, dove erano deposti i corpi con i vari oggetti
che costituivano il loro “corredo”. Quest'ultimo comprendeva da
una parte alcuni oggetti, come ampolle (antenate delle cosiddette
“ampolle del pellegrino”, prodotte in grande quantità nella
tarda antichità e nel medioevo, quando i pellegrini le usavano per
riportare a casa come reliquie acqua santa o olio di lampada votiva
dai santuari che visitavano), anfore, vasi per cosmetici, contenitori
per medicinali, che permettevano al defunto di soddisfare i bisogni
quotidiani anche nell'aldilà, e dall'altra parte oggetti di culto,
posti a protezione del defunto, come piastrine con formule augurali,
o con formule del Libro dei Morti (una serie di preghiere,
letteralmente “formule per uscire di giorno”, raccolte in 175
capitoli), che servivano a proteggere il defunto nell'aldilà.
Possiamo ammirare, poi, all'interno di questa sala, una ricca serie
di uscebti, alcune statuine di “servitori dell'aldilà”,
che si dovevano occupare dei lavori che il faraone non avrebbe potuto
svolgere nell'oltretomba – lavori agricoli, soprattutto. Dal Medio
Regno in poi (dal Nuovo Regno hanno anche gli strumenti di lavoro)
vengono posti all'interno delle tombe. Ne erano 365, uno per ogni
giorno dell'anno, nelle tombe faraoniche. Lavoravano in squadre, e
quindi c'erano 36 capisquadra, e spesso venivano conservati
all'interno di una cassetta porta-uscebti (al Museo Archeologico ne
abbiamo una in legno stuccato e dipinto, che risale al 1100-1000 a.C.
circa). Di tutte le statuine abbiamo degli esemplari in legno, in
pietre varie, e soprattutto in faience, una pietra azzurra spesso
utilizzata dagli egizi.
In questa sala, poi, troviamo le stele
e i rilievi, che venivano collocati in varie posizioni nella cappella
della tomba, e sancivano l'impegno dei familiari a fornire ai propri
defunti le provviste di cui necessitano per prosperare nell'aldilà.
Generalmente veniva raffigurato il defunto mentre offriva libagioni
alle divinità (spesso Iside, Osiride e Horus), o ai suoi genitori o
nonni, oppure le riceveva, ad esempio dai sacerdoti. Le tecniche di
realizzazione delle stele erano varie: bassorilievo (ribassando,
cioè, l'intera superficie della stele per lasciare a rilievo le
figure), incisione dei contorni delle figure, o delle figure stesse.
Alcune stele avevano anche una “falsa porta”, che serviva come
punto di contatto tra i vivi e i morti, e permetteva alla forza
vitale del defunto di entrare e uscire dalla tomba. Venivano riposte
proprio lì, inoltre, le offerte funerarie.
Nell'Antico Egitto uno dei requisiti
per la sopravvivenza dopo la morte era la conservazione del corpo e
la sua identificazione con le membra del dio dei morti, Osiride.
Osiride era il fratello e sposo di
Iside, ma era stato ucciso dal fratello Seth, che geloso di lui, lo
aveva fatto entrare con l'inganno in un sarcofago, e lo aveva gettato
nel Nilo. Il suo corpo era arrivato a Biblo, dove Iside, sotto
mentite spoglie, era andata a cercarlo. Costretta, una volta scoperta
nell'atto di svolgere dei riti sui carboni ardenti con il figlio
della regina, a rivelare la sua identità, riesce ad ottenere dalla
regina il sarcofago con il corpo di Osiride. Iside non riesce a
risuscitarlo, ma riesce ad esserne fecondata, e a concepire Horus.
Seth troverà il corpo di Osiride e lo farà a pezzi, disperdendone
le membra per tutto l'Egitto. Iside, però, raccoglierà tutti i
pezzi, tranne l'organo genitale di Osiride, che non verrà ritrovato.
Riuscirà in questo modo a conservare il suo corpo e a permettergli
di raggiungere la vita dell'oltretomba nei campi Aru. Toccherà poi a
Horus vendicare il padre e uccidere suo zio Seth, per poi dare
origine alla dinastia faraonica.
Per vivere nell'aldilà, secondo la
cultura egizia, il corpo del defunto doveva essere mummificato. La
mummificazione era un processo che durava circa 70 giorni: per prima
cosa, il corpo veniva lavato, poi venivano estratti gli organi. Il
cervello veniva estratto dal naso, fegato, intestino, polmoni e
stomaco venivano estratti e riposti all'interno dei vasi canopi (vasi
con il coperchio a forma di uomo, falco, bue e sciacallo), il cuore,
sede delle emozioni per gli egizi, veniva pesato, e se più leggero o
di ugual peso rispetto a una piuma, simbolo della dea Maat (la
Giustizia) permetteva all'anima del defunto di raggiungere l'aldilà.
Poi iniziava il processo di essiccazione, e quindi il corpo veniva
ricoperto di natron (sale divino), e infine veniva avvolto con le
bende, all'interno delle quali erano riposti gli amuleti. Ogni
amuleto aveva una collocazione specifica sul corpo e un significato
particolare. Gli amuleti più utilizzati, in genere in pietra dura,
lapislazuli, cornalina, diaspro o turchese, o faience, raffigurano il
pilastro o colonna vertebrale di Osiride, l'occhio di Horus, il nodo
di Iside (che rappresenta il suo utero o un ornamento del suo abito),
il cuore, il sole nascente, gli strumenti del muratore, le piume di
Ammon, e gli scarabei. Tra questi ultimi, che normalmente venivano
riposti sul cuore, ricordiamo lo “scarabeo del cuore”,
presente dal Medio Regno in poi, che doveva proteggere l'anima del
defunto, affinché eventuali menzogne sul suo conto non
pregiudicassero il giudizio di Osiride, e lo “scarabeus sacer”,
anche detto “scarabeo stercorario”, e cioè quello che rotola
sfere di escremento sul terreno, per poi portarle sotto terra per
nutrire le larve. Questo passaggio veniva assimilato al ciclo del
sole, che durante la notte deve andare sottoterra, per poi risorgere
ogni giorno proprio come scarabeo (dio Chepri).
Tra le mummie presenti in questa sala
alcune sono originali, come la mummia di Ankhapy, di epoca
tolemaica, e una è una falsa mummia. Entrambe di epoca tolemaica,
entrambe con sarcofagi antropoidi interni e cartonnage. Abbiamo poi
un “pastiche”, e cioè un assemblaggio di vari pezzi di
mummia, portati evidentemente, come era di moda, dall'Egitto, nel
diciannovesimo secolo, e giunti al museo, e un sarcofago di tipo
“yellow coffin” (chiamato così per le pareti di fondo gialle),
che risale al terzo periodo intermedio. Sui sarcofagi antropoidi
veniva in effetti riprodotta l'immagine del defunto, con le braccia
incrociate, e i gioielli vari, come la collana usech, e sulle
pareti erano riprodotte formule magiche o preghiere e scene di
divinità o scene di libagioni.
Nella sala sono esposte le immagini
delle principali divinità del ricco pantheon egiziano antico, con
riferimento ai loro molteplici aspetti e alle più importanti
mitologie. Sono anche esposte tre mummie di coccodrillo, un adulto
con due piccoli ai lati, connesse al culto del dio Sobek e alla
fertilità del fiume Nilo. Le statuine delle divinità vengono
suddivise nelle varie triadi, oltre a quella di Iside
(con le corna di Hathor, il disco solare e la chiave della vita in
mano), Osiride (con la
doppia corona, lo scettro e il flagello) e Horus
(spesso rappresentato sotto forma di falco), abbiamo la triade di
Menfi, composta dal dio Ptah (patrono degli artigiani),
dalla dea Sekhmet (sotto forma di leonessa) e dal figlio
Nefertum (simbolo di rinascita e di fertilità, rappresentato
con il fiore di loto in testa. Molte divinità erano zoomorfe, ad
esempio il toro Api era una
manifestazione del Dio Ptah, la dea Bastet era rappresentata
sotto forma di gatta, la dea Toeris sotto forma di ippopotamo.
Per questo motivo, molti animali erano ritenuti sacri, e venivano
mummificati e sepolti in alcune zone dell'Egitto, come Saqqara.
Insieme alle statuine delle divinità,
troviamo quelle che venivano utilizzate come protezione individuale,
come le statue di Bes, rappresentato frontalmente come un
vecchio ciccione, spesso con armi o coltelli o serpenti in mano. Il
dio Bes apparteneva al culto popolare e aveva una funzione
apotropaica, in particolare proteggeva i bambini. A protezione
individuale venivano utilizzate anche le stele arpocratee,
delle stele che raffiguravano Arpocrate (Horus fanciullo), che
teneva in mano i serpenti e schiacciava i coccodrilli. Arpocrate
poteva fare tutto ciò grazie alla magia che gli era stata trasmessa
dalla madre Iside. Anche Iside viene rappresentata spesso mentre ha
in mano i serpenti, infatti, simbolo del fatto che con la magia
riuscisse a dominare il pericolo. I serpenti erano ritenuti animali
molto pericolosi, ma anche animali sacri, perché erano gli unici a
rinnovare la loro pelle ogni anno, e gli egizi associavano questo
processo al rinnovo del terreno, alla fertilità, alla resurrezione.
Altri oggetti di culto erano le statue magiche, nella
collezione egizia del museo archeologico di Napoli ne abbiamo un
esemplare in basalto, di epoca tolemaica. Queste statue raffiguravano
individui noti per le loro capacità di guaritori, venivano bagnate
con acqua che, scorrendo lungo tutta la superficie, assorbiva i
poteri terapautici delle formule incise sulla statua stessa, e veniva
raccolta in un bacile sottostante, per essere usata come medicamento
o agente di prevenzione. A differenza delle stele arpocratee, usate
come amuleto individuale, queste statue erano spesso oggetto di
pubblico culto.
Alla base di questi culti c'era la
convinzione che la magia viaggiasse di pari passo con la medicina e
potesse curare le malattie, che secondo gli egizi potevano essere
state causate da spiriti maligni.
Già ai tempi di Alessandro Magno, ma
soprattutto con la sconfitta di Antonio e Cleopatra da parte di
Ottaviano, molti culti religiosi arrivano nel Mediterraneo. Tra
questi, in particolare quello di Serapide, che nella sua versione
“romana” assume i caratteri di Osiride, Api, Zeus, Dioniso e
Asclepio, e quello di Iside, che viene assorbita soprattutto come
Isis lactans, e cioè nell'iconografia che la mostra mentre
allatta il figlio Horus, iconografia che poi diventerà la Mamma con
il bambino nella religione cristiana. Nella collezione egizia del
museo archeologico sono conservati diversi esemplari di Isis lactans.
In questa sala, ancora, una situla di
epoca romana, e cioè un vasetto in bronzo dalla forma ovoidale,
decorato a rilievo con una processione di divinità e un sacerdote
officante un rito probabilmente d'offerta per il dio Amon-Min
itifallico. La forma evoca una mammella, dispensatrice di vita,
mentre l'elemento decorativo principale è il fiore di loto, simbolo
di rigenerazione. Le situle si trovavano a volte nell'area della
necropoli, probabilmente lasciate dai pellegrini, oppure facevano
parte del corredo funebre di alcuni alti funzionari.
Il tempio in Egitto era una metafora
della creazione del mondo, e aveva, oltre al valore religioso, in
quanto luogo di celebrazione di culti, anche un valore politico,
economico e sociale.
In questa sala è possibile trovare dei
pannelli esplicativi sul sistema di lingua e scrittura nell'antico
Egitto. Per quanto riguarda la lingua, l'egiziano antico è
una lingua afroasiatica ed è parlata in Egitto sin dal 400 a.C., ha
attraversato diverse fasi:
Antico egiziano, la
lingua dell'Antico Regno, in cui furono redatti in particolare i
“Testi delle Piramidi”.
Medio egiziano, la
lingua letteraria “classica”, usata dal 2100 a.C. circa. Non era
più parlata già nel Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), ma restò in uso
come lingua scritta per tutta la storia egiziana.
Neo-egiziano, lingua
parlata dal 1660 al 650 a.C. Circa
Demotico, dal greco
demotikos “popolare”, dal 650 a.C. in poi
Copto (secoli III –
XI d.C.), ultima fase della lingua egiziana
Per quanto riguarda, invece, la
scrittura, le grafie utilizzate erano:
Geroglifica,
principalmente utilizzata su monumenti per usi ufficiali e/o
religiosi. In uso da prima del 3000 a.C., fino almeno al 394 d.C.
Ogni segno geroglifico è un pittogramma, raffigura, cioè, un
oggetto realmente esistente in natura. Ad esempio, il disegno della
bocca può essere utilizzato come ideogramma, e cioè per esprimere
il significato “bocca”, oppure come fonogramma, e cioè per
esprimere il suono “r”. i geroglifici potevano essere letti da
destra a sinistra o viceversa, si iniziava dalla direzione del
segno. Potevano essere monolitteri (che indicano un solo suono),
bilitteri, trilitteri e quadrilitteri.
Ieratica, scrittura
corsiva usata dagli scribi, contemporaneamente al geroglifico, su
papiri e ostraka.
Demotico, scrittura
corsiva che dal 650 a.C. E fino almeno al V secolo d.C. Diventa la
principale scrittura, mentre l'uso dello ieratico si limita a testi
religiosi e medici.
La scrittura era importantissima per
gli egizi, era stata inventata dal Dio Thot, coloro volevano
intraprendere una carriera nell'amministrazione dello stato dovevano
frequentare sin dall'età di sei anni la scuola degli scribi. Lo
scriba aveva un ruolo importantissimo nella società dell'antico
Egitto, e infatti nella Satira dei mestieri (o
Insegnamento di Khety), testo che risale probabilmente al
Medio Regno e che ci è stato tarmandato dal papiro Sallier II, si
celebra il ruolo dello scriba come superiore a tutti gli altri
mestieri. Lo scriba viene rispettato già da bambino – dice
un padre al figlio, mentre lo accompagna a scuola – mentre gli
altri mestieri, come scultore, tagliapietre, muratore, contadino,
sono faticosi e non ricevono lo stesso rispetto. Lo scriba (sesh)
era raffigurato sempre seduto con un papiro tra le mani, o chino
nell'atto di registrare conteggi di merci, bestiame o altro...
Un frammento di papiro demotico è qui
esposto in vetrina, il testo fa probabilmente riferimento a un elenco
di persone inserite in un lavoro di corvée.
Nel lato destro della sala sono invece
raccolti reperti trovati non in Egitto, ma nei paesi del
Mediterraneo. Diversi culti egizi furono trasmessi alle civiltà del
Mediterraneo, in epoca macedone, ma specialmente in epoca romane, ed
è per questo motivo che in Campania, ad esempio, vi erano numerosi
Isei, ad esempio a Pompei, a Napoli, a Benevento e a Cuma. Tra gli
oggetti raccolti in questa sezione della sala troviamo amuleti, una
stele arpocratea, statuette di Thot babbuino, frammenti di lastre
campane con motivi egitizzanti, vasi canopi, e poi un sistro, uno
strumento musicale di origine egiziana che nel periodo greco-romano
ha particolare diffusione nelle cerimonie isiache e nei riti
misterici.