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Il murales omaggio di Tono Cruz a Totò nel Rione Sanità

Nel Rione Sanità , a Napoli, sulla facciata di un palazzo, c'è un murales dedicato a Totò.
L'opera di street art è di Tono Cruz , artista spagnolo delle Gran Canarie, rappresenta la famosa scena del film "La banda degli onesti", in cui Totò spiega a Peppino come funziona il capitalismo con la metafora dello zucchero. La scena del film si può vedere a questo link
Il capitalista approfitta dell'incisione altrui, per rubare loro le risorse. E così in questa scena, siccome Peppino non sa quanto zucchero versare nella propria tazzina di caffè, Totò man mano prende per sé tutto lo zucchero, lasciando il compare a bocca asciutta.
Il murales è stato fatto per onorare la memoria dell'attore napoletano nel quartiere dove è nato, e anche per donare al rione un ulteriore elemento di rivalutazione culturale. Tono Cruz, infatti, insieme ad altri street artist, ha partecipato al progetto promosso da padre Antonio Loffredo e dalla Fondazione di Comunità San Gennaro. Già nel 2015 aveva dipinto nella piazza della chiesa il murales "Luce", e insieme all'artista cileno Mono Gonzalez aveva decorato il campanile di una chiesa nel quartiere.

In the Rione Sanità, in Naples, on the facade of a building, there is a mural dedicated to Totò, a famous Neapolitan comic actor of the twentieth century. The street art work has been made by Tono Cruz, a Spanish artist from the Gran Canaries, and represents the famous scene from the movie "The band of honest men", in which Totò explains to Peppino how capitalism works, using the metaphor of the sugar. The scene of the movie can be seen at this link. The capitalist takes advantage of the engraving of others to steal resources from them. In this scene, indeed, since Peppino does not know how much sugar to pour into his cup of coffee, Totò gradually takes all the sugar for himself. The mural was done to honor the memory of the Neapolitan actor in the neighborhood where he was born, and also to give the district an additional element of cultural revaluation. In fact, Tono Cruz, together with other street artists, participated in the project promoted by Antonio Loffredo, preacher of the Church Santa Maria della Sanità, and by the San Gennaro Community Foundation. Already in 2015 Tono Cruz had painted the mural "Luce" in the church square, and together with the Chilean artist Mono Gonzalez he had decorated the bell tower of a church in the neighborhood.

Don't mix ghosts with angels, il murales all'ingresso del Rione Sanità

"Don't mix ghosts with angels"
"Nu 'mmescà 'e fantasme cu ll'angiule" 
Lo scrive chiaramente, Simone, del Collettivo FX, al quale questo murales è costato un giorno intero di lavoro. Lo street artist, infatti, ha dovuto rimuovere i manifesti elettorali affissi sul muro, prima di realizzare l'opera nel Rione Sanità, a Napoli. 
Il murales, che rientra anche nel progetto "Madonne dell'Adesso", rappresenta una madonna nera e due bambini. Dei due, quello in braccio alla Madonna ha i tratti africani, e l'aureola, e cerca di togliere un fantasma (o un demone) dalla testa dell'altro bambino, che ha le ali. Non è ben chiaro chi dei due sia il bambino e chi dei due sia l'angelo, ma non importa. Non c'è una netta divisione, in fondo, tra buoni e cattivi, tra angeli e demoni, c'è chi lotta, oggi, per scacciare i fantasmi del rione, e c'è chi non ha avuto molte alternative, nella vita. 
L'opera di street art è ispirata all'immagine della Madonna della Sanità, la più antica di Napoli trovata nella vicina chiesa di Santa Maria della Sanità (anche chiamata Chiesa di San Vincenzo, per la presenza della statua di Vincenzo Ferrer), e si quasi all'ingresso del Borgo Vergini, come a voler chiarire che chi vi accede, deve essere consapevole che condivisione, accoglienza, tolleranza verso il prossimo, integrazione e liberazione dai pregiudizi sono alla base della rinascita del quartiere. 
Il progetto è sorto in collaborazione con la Fondazione San Gennaro e con Il fazzoletto di perle e ha richiamato nel quartiere diversi street artist. 

Erri de Luca a Napoli, nel murales di c215

Spunta a Napoli , nel quartiere Forcella , il volto di Erri de Luca, noto scrittore contemporaneo . Si tratta di un'opera di streetart di Christian Guémy, in arte c215 , artista francese che lavora generalmente con la tecnica dello stencil. Christian ha studiato Storia dell'Arte all'Università della Sorbonne a Parigi, dove ha conseguito il dottorato di ricerca. Fortemente influenzato da Caravaggio, di cui rappresenta "Il bacchino malato" nel centro storico di Napoli, e da Ernest Pignon Ernest, esponente del movimento Fluxus e del situazionismo, c215 sceglie, come soggetti delle sue opere, per lo più uomini comuni, come mendicanti, anziani, rifugiati. I suoi personaggi sembrano quasi quadri espressionisti, i dettagli sono rappresentati con una minuziosità tale da rendere visibile i segni del quotidiano, come, in questo caso, le rughe sul volto. 

Abraham Calero - street art, tenerezza ed economia sostenibile

Da qualche giorno nel centro storico di Napoli, in zona universitaria, c'è un nuovo murales. Si tratta di un'opera di Abraham Calero, street artist dell'isola di Mallorca, in Spagna. Anche uno sguardo disattento nota il rimando a uno dei padri della street art, e cioè al "Girl with balloon" di Banksy. In effetti, l'opera di Abraham Calero è anche un omaggio a Banksy, ma nel suo murales il palloncino non ha la forma di un cuore, ma del virus, e porta via il vecchietto Carl Fredricksen di "Up" della Pixar (vi consiglio di non guardarlo, se vi commuovete facilmente), che nel film vende proprio i palloncini. Il riferimento è ovviamente, a tutti gli affetti (in particolare quelli dei nonni) che la pandemia in corso ci ha sottratto. La bambina tende il braccio verso il nonno che vola via, cercando di vincere la distanza che li separa, o semplicemente di salutarlo. L'opera di Abraham Calero è stata fatta in vari stili: la bambina è uno stencil, Carl con il palloncino, invece, sono una stampa (Carl in scala di grigi, il virus di colore rosso). Si tratta di una delle due variazioni, sullo stesso tema, realizzate dall'artista: nella prima è tutto identico, eccetto per il palloncino a forma di cuore, invece che di virus. La prima opera, però, che è stata protagonista del suo progetto "¡Por Fin Es Lunes!", in cui il murales cambiava proprietario ogni settimana. In un'intervista, infatti, Abraham Calero afferma che l'artista, nel momento in cui trova una collocazione alla propria opera, la regala alla città, e ogni spettatore ne darà un'interpretazione differente. Decide, allora, di inaugurare un gioco: l'opera potrà, ogni settimana, essere ritirata da un qualunque spettatore, che potrà portarla con sé ed esporla dove vuole per la settimana in corso; il lunedì successivo dovrà però cederla al primo richiedente. "¡Por Fin Es Lunes!" significa "Finalmente è lunedì!" e si riferisce, evidentemente, al giorno della settimana in cui il murales trova un nuovo proprietario, e, di conseguenza, un nuovo contesto. Generalmente, il lunedì è associato a una sensazione di malessere, perché si torna a lavoro, e infatti l'espressione più comunemente utilizzata è "¡Por Fin No Es Lunes!", per indicare che finalmente è arrivato il fine settimana e ci possiamo dedicare ai nostri hobby. Ma quest'anno, per molte persone che hanno perso il lavoro, è cambiata la prospettiva. Non è la prima volta che Abraham Calero utilizza la modalità del gioco nel suo lavoro: in passato, infatti, aveva trattato il tema della mancanza di turismo a causa della pandemia proprio con un gioco di parole. Da "SOS turisme" a "SOS tenible": nelle isole baleari il turismo è di certo la fonte di ricchezza principale, ma l'artista vuole porre l'accento sul fatto che proprio il monopolio del turismo ha portato, con la pandemia, al crollo economico totale, e a un forte aumento della povertà. La povertà non solo di chi possiede o gestisce i grandi alberghi, ma anche di chi si occupa della pulizia degli asciugamani o di portare i piatti ai tavoli. Non bisognerà tornare alla situazione di prima, ma trovare delle forme di economia sostenibile e che consentano di offrire una ricchezza al territorio indipendente dal turismo. Una visione delle cose che mi sento di appoggiare in toto!

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Opera di Abraham Calero



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Opera di Banksy "Girl with Balloon"
Alla scoperta della collezione egizia nel Museo Archeologico di Napoli

Alla scoperta della collezione egizia nel Museo Archeologico di Napoli


La collezione egizia del Museo Archeologico di Napoli è la seconda più importante d'Italia, dopo quella del Museo Egizio di Torino.

Raccoglie 2500 oggetti databili tra l'inizio dell'epoca dinastica e la fine dell'epoca bizantina (3000 a.C. - 640 d.C.), pervenuti tra il 1803 e il 1917, attraverso l'acquisizione di collezioni private quali la collezione Borgia, la collezione Zoëga, la collezione Drosso-Picchianti e le collezioni Hogg e Schnars.

Di queste collezioni fanno parte alcuni pezzi originali dell'epoca dell'antico Egitto, e altri pezzi egittizzanti, i cosiddetti “falsi sette-ottocenteschi”, prodotti sia a scopo didascalico, che a scopo puramente speculativo.

Il progetto per la formazione di una sezione di antichità egiziane nel Real Museo Borbonico giunge a compimento solo nel 1821, ma possiamo collocarne le premesse alla fine del decennio francese, quando nel 1814 Gioacchino Murat avvia l'acquisto della celebre collezione Borgia.

Se visiterete la collezione egizia nel Museo Archeologico di Napoli, per raggiungere il piano seminterrato, dovrete percorrere una buona parte della collezione Farnese, ereditata da Carlo di Borbone in quanto figlio di Elisabetta Farnese. Fu poi l'erede di Carlo, e cioè Ferdinando di Borbone, a riunire i pezzi della collezione Farnese e i reperti degli scavi di Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti all'interno del Museo Archeologico.

Prima delle scale che portano alla collezione, troverete dei calchi in gesso di alcune stele egizie.

Scendendo poi le scale, la prima statua ad accogliervi sarà il:

  • Naoforo farnese, forse la prima testimonianza della civiltà egiziana antica entrata a far parte delle collezioni del Museo di Napoli, presso il quale la sua presenza è documentata già dal 1803. Non appartiene alle collezioni private, ma alla collezione Farnese.

Il naoforo è la statua di un personaggio inginocchiato con le braccia protese in avanti a sorreggere un tabernacolo (dal greco naos, lo stesso che nei templi greci custodiva la statua della divinità). All'interno del naos troviamo Osiride, la divinità egizia dell'oltretomba.

Il naoforo farnese risale all'epoca tarda, alla XXVI dinastia (664 – 525 a. C.). Il personaggio ritratto è un porta-sigilli, il suo nome è quasi impronunciabile: Uahibramerineit, figlio di Taqerenet. Questi dettagli sono incisi sul lato posteriore della statua, in due colonne verticali sul pilastro dorsale. Uahibramerineit indossa un corto gonnellino plissettato e porta un'ampia parrucca “a borsa”, e un pendente che raffigura Bat, forma arcaica della Dea-vacca Hathor, simbolo di fertilità.

  • Insieme al naoforo, nell'ingresso, troviamo pannelli esplicativi della collezione egizia, teche con oggetti egittizzanti, quindi risalenti al XVII e al XIX secolo, e tre calchi delle divinità Iside, Osiride e Hathor.

Tra gli oggetti raccolti all'interno della teca è interessante il calamaio a forma di babbuino, iconografia, che spesso, in alternativa all'ibis, veniva utilizzata per il dio Thot, inventore della scrittura.

Seguono cinque sale, nelle quali sono disposti i pezzi originali della collezione.

  • Sala XIX – Il faraone e gli uomini

Nella sala XIX sono esposte, in ordine cronologico, quasi tutte le statue della collezione egizia del MANN – appartenenti per lo più alla Collezione Borgia – che raffigurano faraoni, funzionari civili e militari, scribi e sacerdoti. Le statue per gli egizi non “rappresentavano” la persona, ma “erano” la persona stessa. Venivano, difatti, animate tramite il rituale dell'apertura della bocca, ed erano considerate intermediari tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra gli uomini e gli dei. Le statue erano in pietra, metallo, legno, avorio e calcare arenaria, erano frontali e poco espressive. Dall'abbigliamento e dai dettagli possiamo riconoscere il loro status sociale; per lo più, le statue venivano realizzate per chi apparteneva a un ceto sociale alto. In particolare, i faraoni venivano rappresentati spesso sotto forma di sfingi, e cioè con il volto di un uomo, e il corpo di un leone (oppure in forma criocefala, cioè con la testa di ariete, specialmente nel Nuovo Regno), spesso poste su slitte. Di sfingi al MANN ne abbiamo quattro, ma solo una è quasi completa. Porta un nemes, cioè una parrucca, in questo caso con un motivo a fasce. Spesso sulle statue dei regnanti si trova anche l'ureo, sulla fronte, e cioè il cobra, simbolo della potenza faraonica, e la corona, che poteva essere rossa, e cioè del basso Egitto, a nord, oppure bianca, e cioè dell'alto Egitto, a sud, o ancora la doppia corona, se il faraone aveva regnato dopo l'unificazione dell'Egitto (2850 circa). Per quanto riguarda gli scribi, invece, generalmente venivano raffigurati con le gambe incrociate e il papiro in mano. Abbiamo ancora, in questa sezione, alcuni esemplari di statue cubo, come quella di Hori, sacerdote, di epoca tarda. La statua cubo appare nel Medio Regno (2055-1650 a.C.) e continua ad essere prodotta anche oltre la fine dell'epoca faraonica. Rappresenta un personaggio seduto a terra (o su un cuscino) con le gambe riportate al petto e le braccia incrociate sulle ginocchia, le cui fattezze sono avvolte in un mantello, dal quale fuoriescono solo le mani e la testa, talvolta i piedi. Troviamo poi, in questa sala, le già menzionate statue-naoforo, che appaiono durante il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.).

Le statue vengono mostrate all'interno della collezione egizia attraverso le varie epoche, partendo dall'Antico Regno (2686 – 2613 a.C.), attraversando il Medio Regno, per poi arrivare al Nuovo Regno, al III periodo intermedio (1069-665 a.C.) e all'Epoca Tarda (664-332 a.C.), nonché all'epoca post- faraonica, della quale abbiamo una testa di Alessandro Magno e una statuina di regina tolemaica, raffigurata in veste della dea Iside. All'interno della collezione egizia abbiamo anche la statua più antica del Museo Archeologico di Napoli - quella di un funzionario - chiamata “Dama di Napoli” perché considerata per lungo tempo raffigurazione di una donna, a causa della lunga gonna e della parrucca. Questa statua risale all'inizio dell'Antico Regno, durante la III dinastia ed è, in realtà, una figura maschile.

  • Sala XX – La tomba e il corredo funerario

Per la maggior parte della storia egiziana una minoranza di Egizi godettero del privilegio di essere sepolti in tombe monumentali. Nella loro forma più tipica queste comprendevano una cappella costruita fuori terra o scavata nella roccia, dove i vivi recavano offerte al defunto, e una parte sotterranea sigillata, dove erano deposti i corpi con i vari oggetti che costituivano il loro “corredo”. Quest'ultimo comprendeva da una parte alcuni oggetti, come ampolle (antenate delle cosiddette “ampolle del pellegrino”, prodotte in grande quantità nella tarda antichità e nel medioevo, quando i pellegrini le usavano per riportare a casa come reliquie acqua santa o olio di lampada votiva dai santuari che visitavano), anfore, vasi per cosmetici, contenitori per medicinali, che permettevano al defunto di soddisfare i bisogni quotidiani anche nell'aldilà, e dall'altra parte oggetti di culto, posti a protezione del defunto, come piastrine con formule augurali, o con formule del Libro dei Morti (una serie di preghiere, letteralmente “formule per uscire di giorno”, raccolte in 175 capitoli), che servivano a proteggere il defunto nell'aldilà. Possiamo ammirare, poi, all'interno di questa sala, una ricca serie di uscebti, alcune statuine di “servitori dell'aldilà”, che si dovevano occupare dei lavori che il faraone non avrebbe potuto svolgere nell'oltretomba – lavori agricoli, soprattutto. Dal Medio Regno in poi (dal Nuovo Regno hanno anche gli strumenti di lavoro) vengono posti all'interno delle tombe. Ne erano 365, uno per ogni giorno dell'anno, nelle tombe faraoniche. Lavoravano in squadre, e quindi c'erano 36 capisquadra, e spesso venivano conservati all'interno di una cassetta porta-uscebti (al Museo Archeologico ne abbiamo una in legno stuccato e dipinto, che risale al 1100-1000 a.C. circa). Di tutte le statuine abbiamo degli esemplari in legno, in pietre varie, e soprattutto in faience, una pietra azzurra spesso utilizzata dagli egizi.

In questa sala, poi, troviamo le stele e i rilievi, che venivano collocati in varie posizioni nella cappella della tomba, e sancivano l'impegno dei familiari a fornire ai propri defunti le provviste di cui necessitano per prosperare nell'aldilà. Generalmente veniva raffigurato il defunto mentre offriva libagioni alle divinità (spesso Iside, Osiride e Horus), o ai suoi genitori o nonni, oppure le riceveva, ad esempio dai sacerdoti. Le tecniche di realizzazione delle stele erano varie: bassorilievo (ribassando, cioè, l'intera superficie della stele per lasciare a rilievo le figure), incisione dei contorni delle figure, o delle figure stesse. Alcune stele avevano anche una “falsa porta”, che serviva come punto di contatto tra i vivi e i morti, e permetteva alla forza vitale del defunto di entrare e uscire dalla tomba. Venivano riposte proprio lì, inoltre, le offerte funerarie.

  • Sala XXI – La mummificazione

Nell'Antico Egitto uno dei requisiti per la sopravvivenza dopo la morte era la conservazione del corpo e la sua identificazione con le membra del dio dei morti, Osiride.

Osiride era il fratello e sposo di Iside, ma era stato ucciso dal fratello Seth, che geloso di lui, lo aveva fatto entrare con l'inganno in un sarcofago, e lo aveva gettato nel Nilo. Il suo corpo era arrivato a Biblo, dove Iside, sotto mentite spoglie, era andata a cercarlo. Costretta, una volta scoperta nell'atto di svolgere dei riti sui carboni ardenti con il figlio della regina, a rivelare la sua identità, riesce ad ottenere dalla regina il sarcofago con il corpo di Osiride. Iside non riesce a risuscitarlo, ma riesce ad esserne fecondata, e a concepire Horus. Seth troverà il corpo di Osiride e lo farà a pezzi, disperdendone le membra per tutto l'Egitto. Iside, però, raccoglierà tutti i pezzi, tranne l'organo genitale di Osiride, che non verrà ritrovato. Riuscirà in questo modo a conservare il suo corpo e a permettergli di raggiungere la vita dell'oltretomba nei campi Aru. Toccherà poi a Horus vendicare il padre e uccidere suo zio Seth, per poi dare origine alla dinastia faraonica.



Per vivere nell'aldilà, secondo la cultura egizia, il corpo del defunto doveva essere mummificato. La mummificazione era un processo che durava circa 70 giorni: per prima cosa, il corpo veniva lavato, poi venivano estratti gli organi. Il cervello veniva estratto dal naso, fegato, intestino, polmoni e stomaco venivano estratti e riposti all'interno dei vasi canopi (vasi con il coperchio a forma di uomo, falco, bue e sciacallo), il cuore, sede delle emozioni per gli egizi, veniva pesato, e se più leggero o di ugual peso rispetto a una piuma, simbolo della dea Maat (la Giustizia) permetteva all'anima del defunto di raggiungere l'aldilà. Poi iniziava il processo di essiccazione, e quindi il corpo veniva ricoperto di natron (sale divino), e infine veniva avvolto con le bende, all'interno delle quali erano riposti gli amuleti. Ogni amuleto aveva una collocazione specifica sul corpo e un significato particolare. Gli amuleti più utilizzati, in genere in pietra dura, lapislazuli, cornalina, diaspro o turchese, o faience, raffigurano il pilastro o colonna vertebrale di Osiride, l'occhio di Horus, il nodo di Iside (che rappresenta il suo utero o un ornamento del suo abito), il cuore, il sole nascente, gli strumenti del muratore, le piume di Ammon, e gli scarabei. Tra questi ultimi, che normalmente venivano riposti sul cuore, ricordiamo lo “scarabeo del cuore”, presente dal Medio Regno in poi, che doveva proteggere l'anima del defunto, affinché eventuali menzogne sul suo conto non pregiudicassero il giudizio di Osiride, e lo “scarabeus sacer”, anche detto “scarabeo stercorario”, e cioè quello che rotola sfere di escremento sul terreno, per poi portarle sotto terra per nutrire le larve. Questo passaggio veniva assimilato al ciclo del sole, che durante la notte deve andare sottoterra, per poi risorgere ogni giorno proprio come scarabeo (dio Chepri).

Tra le mummie presenti in questa sala alcune sono originali, come la mummia di Ankhapy, di epoca tolemaica, e una è una falsa mummia. Entrambe di epoca tolemaica, entrambe con sarcofagi antropoidi interni e cartonnage. Abbiamo poi un “pastiche”, e cioè un assemblaggio di vari pezzi di mummia, portati evidentemente, come era di moda, dall'Egitto, nel diciannovesimo secolo, e giunti al museo, e un sarcofago di tipo “yellow coffin” (chiamato così per le pareti di fondo gialle), che risale al terzo periodo intermedio. Sui sarcofagi antropoidi veniva in effetti riprodotta l'immagine del defunto, con le braccia incrociate, e i gioielli vari, come la collana usech, e sulle pareti erano riprodotte formule magiche o preghiere e scene di divinità o scene di libagioni.

  • Sala XII – Religione e magia

Nella sala sono esposte le immagini delle principali divinità del ricco pantheon egiziano antico, con riferimento ai loro molteplici aspetti e alle più importanti mitologie. Sono anche esposte tre mummie di coccodrillo, un adulto con due piccoli ai lati, connesse al culto del dio Sobek e alla fertilità del fiume Nilo. Le statuine delle divinità vengono suddivise nelle varie triadi, oltre a quella di Iside (con le corna di Hathor, il disco solare e la chiave della vita in mano), Osiride (con la doppia corona, lo scettro e il flagello) e Horus (spesso rappresentato sotto forma di falco), abbiamo la triade di Menfi, composta dal dio Ptah (patrono degli artigiani), dalla dea Sekhmet (sotto forma di leonessa) e dal figlio Nefertum (simbolo di rinascita e di fertilità, rappresentato con il fiore di loto in testa. Molte divinità erano zoomorfe, ad esempio il toro Api era una manifestazione del Dio Ptah, la dea Bastet era rappresentata sotto forma di gatta, la dea Toeris sotto forma di ippopotamo. Per questo motivo, molti animali erano ritenuti sacri, e venivano mummificati e sepolti in alcune zone dell'Egitto, come Saqqara.

Insieme alle statuine delle divinità, troviamo quelle che venivano utilizzate come protezione individuale, come le statue di Bes, rappresentato frontalmente come un vecchio ciccione, spesso con armi o coltelli o serpenti in mano. Il dio Bes apparteneva al culto popolare e aveva una funzione apotropaica, in particolare proteggeva i bambini. A protezione individuale venivano utilizzate anche le stele arpocratee, delle stele che raffiguravano Arpocrate (Horus fanciullo), che teneva in mano i serpenti e schiacciava i coccodrilli. Arpocrate poteva fare tutto ciò grazie alla magia che gli era stata trasmessa dalla madre Iside. Anche Iside viene rappresentata spesso mentre ha in mano i serpenti, infatti, simbolo del fatto che con la magia riuscisse a dominare il pericolo. I serpenti erano ritenuti animali molto pericolosi, ma anche animali sacri, perché erano gli unici a rinnovare la loro pelle ogni anno, e gli egizi associavano questo processo al rinnovo del terreno, alla fertilità, alla resurrezione. Altri oggetti di culto erano le statue magiche, nella collezione egizia del museo archeologico di Napoli ne abbiamo un esemplare in basalto, di epoca tolemaica. Queste statue raffiguravano individui noti per le loro capacità di guaritori, venivano bagnate con acqua che, scorrendo lungo tutta la superficie, assorbiva i poteri terapautici delle formule incise sulla statua stessa, e veniva raccolta in un bacile sottostante, per essere usata come medicamento o agente di prevenzione. A differenza delle stele arpocratee, usate come amuleto individuale, queste statue erano spesso oggetto di pubblico culto.

Alla base di questi culti c'era la convinzione che la magia viaggiasse di pari passo con la medicina e potesse curare le malattie, che secondo gli egizi potevano essere state causate da spiriti maligni.

Già ai tempi di Alessandro Magno, ma soprattutto con la sconfitta di Antonio e Cleopatra da parte di Ottaviano, molti culti religiosi arrivano nel Mediterraneo. Tra questi, in particolare quello di Serapide, che nella sua versione “romana” assume i caratteri di Osiride, Api, Zeus, Dioniso e Asclepio, e quello di Iside, che viene assorbita soprattutto come Isis lactans, e cioè nell'iconografia che la mostra mentre allatta il figlio Horus, iconografia che poi diventerà la Mamma con il bambino nella religione cristiana. Nella collezione egizia del museo archeologico sono conservati diversi esemplari di Isis lactans.

In questa sala, ancora, una situla di epoca romana, e cioè un vasetto in bronzo dalla forma ovoidale, decorato a rilievo con una processione di divinità e un sacerdote officante un rito probabilmente d'offerta per il dio Amon-Min itifallico. La forma evoca una mammella, dispensatrice di vita, mentre l'elemento decorativo principale è il fiore di loto, simbolo di rigenerazione. Le situle si trovavano a volte nell'area della necropoli, probabilmente lasciate dai pellegrini, oppure facevano parte del corredo funebre di alcuni alti funzionari.

Il tempio in Egitto era una metafora della creazione del mondo, e aveva, oltre al valore religioso, in quanto luogo di celebrazione di culti, anche un valore politico, economico e sociale.

  • Sala XXIII – Scrittura, arti e mestieri

In questa sala è possibile trovare dei pannelli esplicativi sul sistema di lingua e scrittura nell'antico Egitto. Per quanto riguarda la lingua, l'egiziano antico è una lingua afroasiatica ed è parlata in Egitto sin dal 400 a.C., ha attraversato diverse fasi:

  1. Antico egiziano, la lingua dell'Antico Regno, in cui furono redatti in particolare i “Testi delle Piramidi”.

  2. Medio egiziano, la lingua letteraria “classica”, usata dal 2100 a.C. circa. Non era più parlata già nel Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), ma restò in uso come lingua scritta per tutta la storia egiziana.

  3. Neo-egiziano, lingua parlata dal 1660 al 650 a.C. Circa

  4. Demotico, dal greco demotikos “popolare”, dal 650 a.C. in poi

  5. Copto (secoli III – XI d.C.), ultima fase della lingua egiziana

Per quanto riguarda, invece, la scrittura, le grafie utilizzate erano:

  1. Geroglifica, principalmente utilizzata su monumenti per usi ufficiali e/o religiosi. In uso da prima del 3000 a.C., fino almeno al 394 d.C. Ogni segno geroglifico è un pittogramma, raffigura, cioè, un oggetto realmente esistente in natura. Ad esempio, il disegno della bocca può essere utilizzato come ideogramma, e cioè per esprimere il significato “bocca”, oppure come fonogramma, e cioè per esprimere il suono “r”. i geroglifici potevano essere letti da destra a sinistra o viceversa, si iniziava dalla direzione del segno. Potevano essere monolitteri (che indicano un solo suono), bilitteri, trilitteri e quadrilitteri.

  2. Ieratica, scrittura corsiva usata dagli scribi, contemporaneamente al geroglifico, su papiri e ostraka.

  3. Demotico, scrittura corsiva che dal 650 a.C. E fino almeno al V secolo d.C. Diventa la principale scrittura, mentre l'uso dello ieratico si limita a testi religiosi e medici.

La scrittura era importantissima per gli egizi, era stata inventata dal Dio Thot, coloro volevano intraprendere una carriera nell'amministrazione dello stato dovevano frequentare sin dall'età di sei anni la scuola degli scribi. Lo scriba aveva un ruolo importantissimo nella società dell'antico Egitto, e infatti nella Satira dei mestieri (o Insegnamento di Khety), testo che risale probabilmente al Medio Regno e che ci è stato tarmandato dal papiro Sallier II, si celebra il ruolo dello scriba come superiore a tutti gli altri mestieri. Lo scriba viene rispettato già da bambino – dice un padre al figlio, mentre lo accompagna a scuola – mentre gli altri mestieri, come scultore, tagliapietre, muratore, contadino, sono faticosi e non ricevono lo stesso rispetto. Lo scriba (sesh) era raffigurato sempre seduto con un papiro tra le mani, o chino nell'atto di registrare conteggi di merci, bestiame o altro...

Un frammento di papiro demotico è qui esposto in vetrina, il testo fa probabilmente riferimento a un elenco di persone inserite in un lavoro di corvée.

Nel lato destro della sala sono invece raccolti reperti trovati non in Egitto, ma nei paesi del Mediterraneo. Diversi culti egizi furono trasmessi alle civiltà del Mediterraneo, in epoca macedone, ma specialmente in epoca romane, ed è per questo motivo che in Campania, ad esempio, vi erano numerosi Isei, ad esempio a Pompei, a Napoli, a Benevento e a Cuma. Tra gli oggetti raccolti in questa sezione della sala troviamo amuleti, una stele arpocratea, statuette di Thot babbuino, frammenti di lastre campane con motivi egitizzanti, vasi canopi, e poi un sistro, uno strumento musicale di origine egiziana che nel periodo greco-romano ha particolare diffusione nelle cerimonie isiache e nei riti misterici.




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Il murales omaggio di Tono Cruz a Totò nel Rione Sanità

Nel Rione Sanità , a Napoli, sulla facciata di un palazzo, c'è un murales dedicato a Totò.
L'opera di street art è di Tono Cruz , artista spagnolo delle Gran Canarie, rappresenta la famosa scena del film "La banda degli onesti", in cui Totò spiega a Peppino come funziona il capitalismo con la metafora dello zucchero. La scena del film si può vedere a questo link
Il capitalista approfitta dell'incisione altrui, per rubare loro le risorse. E così in questa scena, siccome Peppino non sa quanto zucchero versare nella propria tazzina di caffè, Totò man mano prende per sé tutto lo zucchero, lasciando il compare a bocca asciutta.
Il murales è stato fatto per onorare la memoria dell'attore napoletano nel quartiere dove è nato, e anche per donare al rione un ulteriore elemento di rivalutazione culturale. Tono Cruz, infatti, insieme ad altri street artist, ha partecipato al progetto promosso da padre Antonio Loffredo e dalla Fondazione di Comunità San Gennaro. Già nel 2015 aveva dipinto nella piazza della chiesa il murales "Luce", e insieme all'artista cileno Mono Gonzalez aveva decorato il campanile di una chiesa nel quartiere.

In the Rione Sanità, in Naples, on the facade of a building, there is a mural dedicated to Totò, a famous Neapolitan comic actor of the twentieth century. The street art work has been made by Tono Cruz, a Spanish artist from the Gran Canaries, and represents the famous scene from the movie "The band of honest men", in which Totò explains to Peppino how capitalism works, using the metaphor of the sugar. The scene of the movie can be seen at this link. The capitalist takes advantage of the engraving of others to steal resources from them. In this scene, indeed, since Peppino does not know how much sugar to pour into his cup of coffee, Totò gradually takes all the sugar for himself. The mural was done to honor the memory of the Neapolitan actor in the neighborhood where he was born, and also to give the district an additional element of cultural revaluation. In fact, Tono Cruz, together with other street artists, participated in the project promoted by Antonio Loffredo, preacher of the Church Santa Maria della Sanità, and by the San Gennaro Community Foundation. Already in 2015 Tono Cruz had painted the mural "Luce" in the church square, and together with the Chilean artist Mono Gonzalez he had decorated the bell tower of a church in the neighborhood.

Don't mix ghosts with angels, il murales all'ingresso del Rione Sanità

"Don't mix ghosts with angels"
"Nu 'mmescà 'e fantasme cu ll'angiule" 
Lo scrive chiaramente, Simone, del Collettivo FX, al quale questo murales è costato un giorno intero di lavoro. Lo street artist, infatti, ha dovuto rimuovere i manifesti elettorali affissi sul muro, prima di realizzare l'opera nel Rione Sanità, a Napoli. 
Il murales, che rientra anche nel progetto "Madonne dell'Adesso", rappresenta una madonna nera e due bambini. Dei due, quello in braccio alla Madonna ha i tratti africani, e l'aureola, e cerca di togliere un fantasma (o un demone) dalla testa dell'altro bambino, che ha le ali. Non è ben chiaro chi dei due sia il bambino e chi dei due sia l'angelo, ma non importa. Non c'è una netta divisione, in fondo, tra buoni e cattivi, tra angeli e demoni, c'è chi lotta, oggi, per scacciare i fantasmi del rione, e c'è chi non ha avuto molte alternative, nella vita. 
L'opera di street art è ispirata all'immagine della Madonna della Sanità, la più antica di Napoli trovata nella vicina chiesa di Santa Maria della Sanità (anche chiamata Chiesa di San Vincenzo, per la presenza della statua di Vincenzo Ferrer), e si quasi all'ingresso del Borgo Vergini, come a voler chiarire che chi vi accede, deve essere consapevole che condivisione, accoglienza, tolleranza verso il prossimo, integrazione e liberazione dai pregiudizi sono alla base della rinascita del quartiere. 
Il progetto è sorto in collaborazione con la Fondazione San Gennaro e con Il fazzoletto di perle e ha richiamato nel quartiere diversi street artist. 

Erri de Luca a Napoli, nel murales di c215

Spunta a Napoli , nel quartiere Forcella , il volto di Erri de Luca, noto scrittore contemporaneo . Si tratta di un'opera di streetart di Christian Guémy, in arte c215 , artista francese che lavora generalmente con la tecnica dello stencil. Christian ha studiato Storia dell'Arte all'Università della Sorbonne a Parigi, dove ha conseguito il dottorato di ricerca. Fortemente influenzato da Caravaggio, di cui rappresenta "Il bacchino malato" nel centro storico di Napoli, e da Ernest Pignon Ernest, esponente del movimento Fluxus e del situazionismo, c215 sceglie, come soggetti delle sue opere, per lo più uomini comuni, come mendicanti, anziani, rifugiati. I suoi personaggi sembrano quasi quadri espressionisti, i dettagli sono rappresentati con una minuziosità tale da rendere visibile i segni del quotidiano, come, in questo caso, le rughe sul volto. 

Abraham Calero - street art, tenerezza ed economia sostenibile

Da qualche giorno nel centro storico di Napoli, in zona universitaria, c'è un nuovo murales. Si tratta di un'opera di Abraham Calero, street artist dell'isola di Mallorca, in Spagna. Anche uno sguardo disattento nota il rimando a uno dei padri della street art, e cioè al "Girl with balloon" di Banksy. In effetti, l'opera di Abraham Calero è anche un omaggio a Banksy, ma nel suo murales il palloncino non ha la forma di un cuore, ma del virus, e porta via il vecchietto Carl Fredricksen di "Up" della Pixar (vi consiglio di non guardarlo, se vi commuovete facilmente), che nel film vende proprio i palloncini. Il riferimento è ovviamente, a tutti gli affetti (in particolare quelli dei nonni) che la pandemia in corso ci ha sottratto. La bambina tende il braccio verso il nonno che vola via, cercando di vincere la distanza che li separa, o semplicemente di salutarlo. L'opera di Abraham Calero è stata fatta in vari stili: la bambina è uno stencil, Carl con il palloncino, invece, sono una stampa (Carl in scala di grigi, il virus di colore rosso). Si tratta di una delle due variazioni, sullo stesso tema, realizzate dall'artista: nella prima è tutto identico, eccetto per il palloncino a forma di cuore, invece che di virus. La prima opera, però, che è stata protagonista del suo progetto "¡Por Fin Es Lunes!", in cui il murales cambiava proprietario ogni settimana. In un'intervista, infatti, Abraham Calero afferma che l'artista, nel momento in cui trova una collocazione alla propria opera, la regala alla città, e ogni spettatore ne darà un'interpretazione differente. Decide, allora, di inaugurare un gioco: l'opera potrà, ogni settimana, essere ritirata da un qualunque spettatore, che potrà portarla con sé ed esporla dove vuole per la settimana in corso; il lunedì successivo dovrà però cederla al primo richiedente. "¡Por Fin Es Lunes!" significa "Finalmente è lunedì!" e si riferisce, evidentemente, al giorno della settimana in cui il murales trova un nuovo proprietario, e, di conseguenza, un nuovo contesto. Generalmente, il lunedì è associato a una sensazione di malessere, perché si torna a lavoro, e infatti l'espressione più comunemente utilizzata è "¡Por Fin No Es Lunes!", per indicare che finalmente è arrivato il fine settimana e ci possiamo dedicare ai nostri hobby. Ma quest'anno, per molte persone che hanno perso il lavoro, è cambiata la prospettiva. Non è la prima volta che Abraham Calero utilizza la modalità del gioco nel suo lavoro: in passato, infatti, aveva trattato il tema della mancanza di turismo a causa della pandemia proprio con un gioco di parole. Da "SOS turisme" a "SOS tenible": nelle isole baleari il turismo è di certo la fonte di ricchezza principale, ma l'artista vuole porre l'accento sul fatto che proprio il monopolio del turismo ha portato, con la pandemia, al crollo economico totale, e a un forte aumento della povertà. La povertà non solo di chi possiede o gestisce i grandi alberghi, ma anche di chi si occupa della pulizia degli asciugamani o di portare i piatti ai tavoli. Non bisognerà tornare alla situazione di prima, ma trovare delle forme di economia sostenibile e che consentano di offrire una ricchezza al territorio indipendente dal turismo. Una visione delle cose che mi sento di appoggiare in toto!

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Opera di Abraham Calero



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Opera di Banksy "Girl with Balloon"
Alla scoperta della collezione egizia nel Museo Archeologico di Napoli

Alla scoperta della collezione egizia nel Museo Archeologico di Napoli


La collezione egizia del Museo Archeologico di Napoli è la seconda più importante d'Italia, dopo quella del Museo Egizio di Torino.

Raccoglie 2500 oggetti databili tra l'inizio dell'epoca dinastica e la fine dell'epoca bizantina (3000 a.C. - 640 d.C.), pervenuti tra il 1803 e il 1917, attraverso l'acquisizione di collezioni private quali la collezione Borgia, la collezione Zoëga, la collezione Drosso-Picchianti e le collezioni Hogg e Schnars.

Di queste collezioni fanno parte alcuni pezzi originali dell'epoca dell'antico Egitto, e altri pezzi egittizzanti, i cosiddetti “falsi sette-ottocenteschi”, prodotti sia a scopo didascalico, che a scopo puramente speculativo.

Il progetto per la formazione di una sezione di antichità egiziane nel Real Museo Borbonico giunge a compimento solo nel 1821, ma possiamo collocarne le premesse alla fine del decennio francese, quando nel 1814 Gioacchino Murat avvia l'acquisto della celebre collezione Borgia.

Se visiterete la collezione egizia nel Museo Archeologico di Napoli, per raggiungere il piano seminterrato, dovrete percorrere una buona parte della collezione Farnese, ereditata da Carlo di Borbone in quanto figlio di Elisabetta Farnese. Fu poi l'erede di Carlo, e cioè Ferdinando di Borbone, a riunire i pezzi della collezione Farnese e i reperti degli scavi di Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti all'interno del Museo Archeologico.

Prima delle scale che portano alla collezione, troverete dei calchi in gesso di alcune stele egizie.

Scendendo poi le scale, la prima statua ad accogliervi sarà il:

  • Naoforo farnese, forse la prima testimonianza della civiltà egiziana antica entrata a far parte delle collezioni del Museo di Napoli, presso il quale la sua presenza è documentata già dal 1803. Non appartiene alle collezioni private, ma alla collezione Farnese.

Il naoforo è la statua di un personaggio inginocchiato con le braccia protese in avanti a sorreggere un tabernacolo (dal greco naos, lo stesso che nei templi greci custodiva la statua della divinità). All'interno del naos troviamo Osiride, la divinità egizia dell'oltretomba.

Il naoforo farnese risale all'epoca tarda, alla XXVI dinastia (664 – 525 a. C.). Il personaggio ritratto è un porta-sigilli, il suo nome è quasi impronunciabile: Uahibramerineit, figlio di Taqerenet. Questi dettagli sono incisi sul lato posteriore della statua, in due colonne verticali sul pilastro dorsale. Uahibramerineit indossa un corto gonnellino plissettato e porta un'ampia parrucca “a borsa”, e un pendente che raffigura Bat, forma arcaica della Dea-vacca Hathor, simbolo di fertilità.

  • Insieme al naoforo, nell'ingresso, troviamo pannelli esplicativi della collezione egizia, teche con oggetti egittizzanti, quindi risalenti al XVII e al XIX secolo, e tre calchi delle divinità Iside, Osiride e Hathor.

Tra gli oggetti raccolti all'interno della teca è interessante il calamaio a forma di babbuino, iconografia, che spesso, in alternativa all'ibis, veniva utilizzata per il dio Thot, inventore della scrittura.

Seguono cinque sale, nelle quali sono disposti i pezzi originali della collezione.

  • Sala XIX – Il faraone e gli uomini

Nella sala XIX sono esposte, in ordine cronologico, quasi tutte le statue della collezione egizia del MANN – appartenenti per lo più alla Collezione Borgia – che raffigurano faraoni, funzionari civili e militari, scribi e sacerdoti. Le statue per gli egizi non “rappresentavano” la persona, ma “erano” la persona stessa. Venivano, difatti, animate tramite il rituale dell'apertura della bocca, ed erano considerate intermediari tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra gli uomini e gli dei. Le statue erano in pietra, metallo, legno, avorio e calcare arenaria, erano frontali e poco espressive. Dall'abbigliamento e dai dettagli possiamo riconoscere il loro status sociale; per lo più, le statue venivano realizzate per chi apparteneva a un ceto sociale alto. In particolare, i faraoni venivano rappresentati spesso sotto forma di sfingi, e cioè con il volto di un uomo, e il corpo di un leone (oppure in forma criocefala, cioè con la testa di ariete, specialmente nel Nuovo Regno), spesso poste su slitte. Di sfingi al MANN ne abbiamo quattro, ma solo una è quasi completa. Porta un nemes, cioè una parrucca, in questo caso con un motivo a fasce. Spesso sulle statue dei regnanti si trova anche l'ureo, sulla fronte, e cioè il cobra, simbolo della potenza faraonica, e la corona, che poteva essere rossa, e cioè del basso Egitto, a nord, oppure bianca, e cioè dell'alto Egitto, a sud, o ancora la doppia corona, se il faraone aveva regnato dopo l'unificazione dell'Egitto (2850 circa). Per quanto riguarda gli scribi, invece, generalmente venivano raffigurati con le gambe incrociate e il papiro in mano. Abbiamo ancora, in questa sezione, alcuni esemplari di statue cubo, come quella di Hori, sacerdote, di epoca tarda. La statua cubo appare nel Medio Regno (2055-1650 a.C.) e continua ad essere prodotta anche oltre la fine dell'epoca faraonica. Rappresenta un personaggio seduto a terra (o su un cuscino) con le gambe riportate al petto e le braccia incrociate sulle ginocchia, le cui fattezze sono avvolte in un mantello, dal quale fuoriescono solo le mani e la testa, talvolta i piedi. Troviamo poi, in questa sala, le già menzionate statue-naoforo, che appaiono durante il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.).

Le statue vengono mostrate all'interno della collezione egizia attraverso le varie epoche, partendo dall'Antico Regno (2686 – 2613 a.C.), attraversando il Medio Regno, per poi arrivare al Nuovo Regno, al III periodo intermedio (1069-665 a.C.) e all'Epoca Tarda (664-332 a.C.), nonché all'epoca post- faraonica, della quale abbiamo una testa di Alessandro Magno e una statuina di regina tolemaica, raffigurata in veste della dea Iside. All'interno della collezione egizia abbiamo anche la statua più antica del Museo Archeologico di Napoli - quella di un funzionario - chiamata “Dama di Napoli” perché considerata per lungo tempo raffigurazione di una donna, a causa della lunga gonna e della parrucca. Questa statua risale all'inizio dell'Antico Regno, durante la III dinastia ed è, in realtà, una figura maschile.

  • Sala XX – La tomba e il corredo funerario

Per la maggior parte della storia egiziana una minoranza di Egizi godettero del privilegio di essere sepolti in tombe monumentali. Nella loro forma più tipica queste comprendevano una cappella costruita fuori terra o scavata nella roccia, dove i vivi recavano offerte al defunto, e una parte sotterranea sigillata, dove erano deposti i corpi con i vari oggetti che costituivano il loro “corredo”. Quest'ultimo comprendeva da una parte alcuni oggetti, come ampolle (antenate delle cosiddette “ampolle del pellegrino”, prodotte in grande quantità nella tarda antichità e nel medioevo, quando i pellegrini le usavano per riportare a casa come reliquie acqua santa o olio di lampada votiva dai santuari che visitavano), anfore, vasi per cosmetici, contenitori per medicinali, che permettevano al defunto di soddisfare i bisogni quotidiani anche nell'aldilà, e dall'altra parte oggetti di culto, posti a protezione del defunto, come piastrine con formule augurali, o con formule del Libro dei Morti (una serie di preghiere, letteralmente “formule per uscire di giorno”, raccolte in 175 capitoli), che servivano a proteggere il defunto nell'aldilà. Possiamo ammirare, poi, all'interno di questa sala, una ricca serie di uscebti, alcune statuine di “servitori dell'aldilà”, che si dovevano occupare dei lavori che il faraone non avrebbe potuto svolgere nell'oltretomba – lavori agricoli, soprattutto. Dal Medio Regno in poi (dal Nuovo Regno hanno anche gli strumenti di lavoro) vengono posti all'interno delle tombe. Ne erano 365, uno per ogni giorno dell'anno, nelle tombe faraoniche. Lavoravano in squadre, e quindi c'erano 36 capisquadra, e spesso venivano conservati all'interno di una cassetta porta-uscebti (al Museo Archeologico ne abbiamo una in legno stuccato e dipinto, che risale al 1100-1000 a.C. circa). Di tutte le statuine abbiamo degli esemplari in legno, in pietre varie, e soprattutto in faience, una pietra azzurra spesso utilizzata dagli egizi.

In questa sala, poi, troviamo le stele e i rilievi, che venivano collocati in varie posizioni nella cappella della tomba, e sancivano l'impegno dei familiari a fornire ai propri defunti le provviste di cui necessitano per prosperare nell'aldilà. Generalmente veniva raffigurato il defunto mentre offriva libagioni alle divinità (spesso Iside, Osiride e Horus), o ai suoi genitori o nonni, oppure le riceveva, ad esempio dai sacerdoti. Le tecniche di realizzazione delle stele erano varie: bassorilievo (ribassando, cioè, l'intera superficie della stele per lasciare a rilievo le figure), incisione dei contorni delle figure, o delle figure stesse. Alcune stele avevano anche una “falsa porta”, che serviva come punto di contatto tra i vivi e i morti, e permetteva alla forza vitale del defunto di entrare e uscire dalla tomba. Venivano riposte proprio lì, inoltre, le offerte funerarie.

  • Sala XXI – La mummificazione

Nell'Antico Egitto uno dei requisiti per la sopravvivenza dopo la morte era la conservazione del corpo e la sua identificazione con le membra del dio dei morti, Osiride.

Osiride era il fratello e sposo di Iside, ma era stato ucciso dal fratello Seth, che geloso di lui, lo aveva fatto entrare con l'inganno in un sarcofago, e lo aveva gettato nel Nilo. Il suo corpo era arrivato a Biblo, dove Iside, sotto mentite spoglie, era andata a cercarlo. Costretta, una volta scoperta nell'atto di svolgere dei riti sui carboni ardenti con il figlio della regina, a rivelare la sua identità, riesce ad ottenere dalla regina il sarcofago con il corpo di Osiride. Iside non riesce a risuscitarlo, ma riesce ad esserne fecondata, e a concepire Horus. Seth troverà il corpo di Osiride e lo farà a pezzi, disperdendone le membra per tutto l'Egitto. Iside, però, raccoglierà tutti i pezzi, tranne l'organo genitale di Osiride, che non verrà ritrovato. Riuscirà in questo modo a conservare il suo corpo e a permettergli di raggiungere la vita dell'oltretomba nei campi Aru. Toccherà poi a Horus vendicare il padre e uccidere suo zio Seth, per poi dare origine alla dinastia faraonica.



Per vivere nell'aldilà, secondo la cultura egizia, il corpo del defunto doveva essere mummificato. La mummificazione era un processo che durava circa 70 giorni: per prima cosa, il corpo veniva lavato, poi venivano estratti gli organi. Il cervello veniva estratto dal naso, fegato, intestino, polmoni e stomaco venivano estratti e riposti all'interno dei vasi canopi (vasi con il coperchio a forma di uomo, falco, bue e sciacallo), il cuore, sede delle emozioni per gli egizi, veniva pesato, e se più leggero o di ugual peso rispetto a una piuma, simbolo della dea Maat (la Giustizia) permetteva all'anima del defunto di raggiungere l'aldilà. Poi iniziava il processo di essiccazione, e quindi il corpo veniva ricoperto di natron (sale divino), e infine veniva avvolto con le bende, all'interno delle quali erano riposti gli amuleti. Ogni amuleto aveva una collocazione specifica sul corpo e un significato particolare. Gli amuleti più utilizzati, in genere in pietra dura, lapislazuli, cornalina, diaspro o turchese, o faience, raffigurano il pilastro o colonna vertebrale di Osiride, l'occhio di Horus, il nodo di Iside (che rappresenta il suo utero o un ornamento del suo abito), il cuore, il sole nascente, gli strumenti del muratore, le piume di Ammon, e gli scarabei. Tra questi ultimi, che normalmente venivano riposti sul cuore, ricordiamo lo “scarabeo del cuore”, presente dal Medio Regno in poi, che doveva proteggere l'anima del defunto, affinché eventuali menzogne sul suo conto non pregiudicassero il giudizio di Osiride, e lo “scarabeus sacer”, anche detto “scarabeo stercorario”, e cioè quello che rotola sfere di escremento sul terreno, per poi portarle sotto terra per nutrire le larve. Questo passaggio veniva assimilato al ciclo del sole, che durante la notte deve andare sottoterra, per poi risorgere ogni giorno proprio come scarabeo (dio Chepri).

Tra le mummie presenti in questa sala alcune sono originali, come la mummia di Ankhapy, di epoca tolemaica, e una è una falsa mummia. Entrambe di epoca tolemaica, entrambe con sarcofagi antropoidi interni e cartonnage. Abbiamo poi un “pastiche”, e cioè un assemblaggio di vari pezzi di mummia, portati evidentemente, come era di moda, dall'Egitto, nel diciannovesimo secolo, e giunti al museo, e un sarcofago di tipo “yellow coffin” (chiamato così per le pareti di fondo gialle), che risale al terzo periodo intermedio. Sui sarcofagi antropoidi veniva in effetti riprodotta l'immagine del defunto, con le braccia incrociate, e i gioielli vari, come la collana usech, e sulle pareti erano riprodotte formule magiche o preghiere e scene di divinità o scene di libagioni.

  • Sala XII – Religione e magia

Nella sala sono esposte le immagini delle principali divinità del ricco pantheon egiziano antico, con riferimento ai loro molteplici aspetti e alle più importanti mitologie. Sono anche esposte tre mummie di coccodrillo, un adulto con due piccoli ai lati, connesse al culto del dio Sobek e alla fertilità del fiume Nilo. Le statuine delle divinità vengono suddivise nelle varie triadi, oltre a quella di Iside (con le corna di Hathor, il disco solare e la chiave della vita in mano), Osiride (con la doppia corona, lo scettro e il flagello) e Horus (spesso rappresentato sotto forma di falco), abbiamo la triade di Menfi, composta dal dio Ptah (patrono degli artigiani), dalla dea Sekhmet (sotto forma di leonessa) e dal figlio Nefertum (simbolo di rinascita e di fertilità, rappresentato con il fiore di loto in testa. Molte divinità erano zoomorfe, ad esempio il toro Api era una manifestazione del Dio Ptah, la dea Bastet era rappresentata sotto forma di gatta, la dea Toeris sotto forma di ippopotamo. Per questo motivo, molti animali erano ritenuti sacri, e venivano mummificati e sepolti in alcune zone dell'Egitto, come Saqqara.

Insieme alle statuine delle divinità, troviamo quelle che venivano utilizzate come protezione individuale, come le statue di Bes, rappresentato frontalmente come un vecchio ciccione, spesso con armi o coltelli o serpenti in mano. Il dio Bes apparteneva al culto popolare e aveva una funzione apotropaica, in particolare proteggeva i bambini. A protezione individuale venivano utilizzate anche le stele arpocratee, delle stele che raffiguravano Arpocrate (Horus fanciullo), che teneva in mano i serpenti e schiacciava i coccodrilli. Arpocrate poteva fare tutto ciò grazie alla magia che gli era stata trasmessa dalla madre Iside. Anche Iside viene rappresentata spesso mentre ha in mano i serpenti, infatti, simbolo del fatto che con la magia riuscisse a dominare il pericolo. I serpenti erano ritenuti animali molto pericolosi, ma anche animali sacri, perché erano gli unici a rinnovare la loro pelle ogni anno, e gli egizi associavano questo processo al rinnovo del terreno, alla fertilità, alla resurrezione. Altri oggetti di culto erano le statue magiche, nella collezione egizia del museo archeologico di Napoli ne abbiamo un esemplare in basalto, di epoca tolemaica. Queste statue raffiguravano individui noti per le loro capacità di guaritori, venivano bagnate con acqua che, scorrendo lungo tutta la superficie, assorbiva i poteri terapautici delle formule incise sulla statua stessa, e veniva raccolta in un bacile sottostante, per essere usata come medicamento o agente di prevenzione. A differenza delle stele arpocratee, usate come amuleto individuale, queste statue erano spesso oggetto di pubblico culto.

Alla base di questi culti c'era la convinzione che la magia viaggiasse di pari passo con la medicina e potesse curare le malattie, che secondo gli egizi potevano essere state causate da spiriti maligni.

Già ai tempi di Alessandro Magno, ma soprattutto con la sconfitta di Antonio e Cleopatra da parte di Ottaviano, molti culti religiosi arrivano nel Mediterraneo. Tra questi, in particolare quello di Serapide, che nella sua versione “romana” assume i caratteri di Osiride, Api, Zeus, Dioniso e Asclepio, e quello di Iside, che viene assorbita soprattutto come Isis lactans, e cioè nell'iconografia che la mostra mentre allatta il figlio Horus, iconografia che poi diventerà la Mamma con il bambino nella religione cristiana. Nella collezione egizia del museo archeologico sono conservati diversi esemplari di Isis lactans.

In questa sala, ancora, una situla di epoca romana, e cioè un vasetto in bronzo dalla forma ovoidale, decorato a rilievo con una processione di divinità e un sacerdote officante un rito probabilmente d'offerta per il dio Amon-Min itifallico. La forma evoca una mammella, dispensatrice di vita, mentre l'elemento decorativo principale è il fiore di loto, simbolo di rigenerazione. Le situle si trovavano a volte nell'area della necropoli, probabilmente lasciate dai pellegrini, oppure facevano parte del corredo funebre di alcuni alti funzionari.

Il tempio in Egitto era una metafora della creazione del mondo, e aveva, oltre al valore religioso, in quanto luogo di celebrazione di culti, anche un valore politico, economico e sociale.

  • Sala XXIII – Scrittura, arti e mestieri

In questa sala è possibile trovare dei pannelli esplicativi sul sistema di lingua e scrittura nell'antico Egitto. Per quanto riguarda la lingua, l'egiziano antico è una lingua afroasiatica ed è parlata in Egitto sin dal 400 a.C., ha attraversato diverse fasi:

  1. Antico egiziano, la lingua dell'Antico Regno, in cui furono redatti in particolare i “Testi delle Piramidi”.

  2. Medio egiziano, la lingua letteraria “classica”, usata dal 2100 a.C. circa. Non era più parlata già nel Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), ma restò in uso come lingua scritta per tutta la storia egiziana.

  3. Neo-egiziano, lingua parlata dal 1660 al 650 a.C. Circa

  4. Demotico, dal greco demotikos “popolare”, dal 650 a.C. in poi

  5. Copto (secoli III – XI d.C.), ultima fase della lingua egiziana

Per quanto riguarda, invece, la scrittura, le grafie utilizzate erano:

  1. Geroglifica, principalmente utilizzata su monumenti per usi ufficiali e/o religiosi. In uso da prima del 3000 a.C., fino almeno al 394 d.C. Ogni segno geroglifico è un pittogramma, raffigura, cioè, un oggetto realmente esistente in natura. Ad esempio, il disegno della bocca può essere utilizzato come ideogramma, e cioè per esprimere il significato “bocca”, oppure come fonogramma, e cioè per esprimere il suono “r”. i geroglifici potevano essere letti da destra a sinistra o viceversa, si iniziava dalla direzione del segno. Potevano essere monolitteri (che indicano un solo suono), bilitteri, trilitteri e quadrilitteri.

  2. Ieratica, scrittura corsiva usata dagli scribi, contemporaneamente al geroglifico, su papiri e ostraka.

  3. Demotico, scrittura corsiva che dal 650 a.C. E fino almeno al V secolo d.C. Diventa la principale scrittura, mentre l'uso dello ieratico si limita a testi religiosi e medici.

La scrittura era importantissima per gli egizi, era stata inventata dal Dio Thot, coloro volevano intraprendere una carriera nell'amministrazione dello stato dovevano frequentare sin dall'età di sei anni la scuola degli scribi. Lo scriba aveva un ruolo importantissimo nella società dell'antico Egitto, e infatti nella Satira dei mestieri (o Insegnamento di Khety), testo che risale probabilmente al Medio Regno e che ci è stato tarmandato dal papiro Sallier II, si celebra il ruolo dello scriba come superiore a tutti gli altri mestieri. Lo scriba viene rispettato già da bambino – dice un padre al figlio, mentre lo accompagna a scuola – mentre gli altri mestieri, come scultore, tagliapietre, muratore, contadino, sono faticosi e non ricevono lo stesso rispetto. Lo scriba (sesh) era raffigurato sempre seduto con un papiro tra le mani, o chino nell'atto di registrare conteggi di merci, bestiame o altro...

Un frammento di papiro demotico è qui esposto in vetrina, il testo fa probabilmente riferimento a un elenco di persone inserite in un lavoro di corvée.

Nel lato destro della sala sono invece raccolti reperti trovati non in Egitto, ma nei paesi del Mediterraneo. Diversi culti egizi furono trasmessi alle civiltà del Mediterraneo, in epoca macedone, ma specialmente in epoca romane, ed è per questo motivo che in Campania, ad esempio, vi erano numerosi Isei, ad esempio a Pompei, a Napoli, a Benevento e a Cuma. Tra gli oggetti raccolti in questa sezione della sala troviamo amuleti, una stele arpocratea, statuette di Thot babbuino, frammenti di lastre campane con motivi egitizzanti, vasi canopi, e poi un sistro, uno strumento musicale di origine egiziana che nel periodo greco-romano ha particolare diffusione nelle cerimonie isiache e nei riti misterici.




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